(Nell’immagine: “Russia Bianca. L’esodo”. Dmitrij Beljukin. 1992-1994.)
La Chiesa russa fa memoria oggi di tutti i nuovi martiri e confessori che patirono la persecuzione e la morte sotto la tirannia bolscevica. A questa moltitudine di martiri e confessori – spesso ignoti al mondo ma non a Dio – mi piace unire quanti dovettero bere l’amaro calice dell’esilio. Sdradicati dalla loro terra e dai loro affetti, dispersi nel mondo, sperimentarono sulla loro pelle il martirio della lontananza e della nostalgia. Come il popolo d’Israele nell’esilio-tipo babilonese anche loro, i cosiddetti bianchi, piansero sui fiumi di terre lontane facendo loro le parole del profeta Daniele: «Signore, non abbiamo né templi, né re, né una città santa, né una sinagoga, né una scuola, né offerte, né sacrifici, né preti, né rabbini. Non abbiamo più nulla. La sola cosa che abbiamo» aggiunge il profeta «è un cuore umile e contrito».
Questi uomini e queste donne portarono frutti di santità in terre diverse dalla loro sperimentando l’esilio come tempo della tenerezza di Dio, tempo dell’umiltà, della dipendenza, dell’onnipotenza della Grazia. Una lezione da non dimenticare: il sangue dei martiri è seme di nuovi cristiani.